Come è noto, spesso i soggetti che hanno maturato dei crediti nei confronti di una S.r.l. si trovano ad avere a che fare con delle “scatole vuote” prive di capienza patrimoniale. Qualsiasi azione di recupero crediti nei confronti di tali soggetti diventa sostanzialmente inutile, in quanto la loro condanna non potrebbe portare ad alcun risultato concreto. Il rischio è quello che, a fronte di servizi resi, merce consegnata, oppure ore di lavoro svolto, il creditore si trovi nell’impossibilità di ottenere il pagamento dovuto, nonostante vi sia piena prova del suo diritto.
A fronte di una situazione di incapienza societaria, tuttavia, spesso gli amministratori e i soci sono soggetti capienti, che potrebbero saldare il debito della società. Essi non sono però debitori diretti della prestazione, sicché è necessario agire nei loro confronti per i danni che essi hanno causato mediante la loro gestione. In particolare, l’art. 2476, commi 6, 7 e 8, del Codice Civile disciplina:
- la responsabilità degli amministratori per inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale;
- la responsabilità degli amministratori per i danni direttamente causati a terzi nell’esercizio dell’attività di amministrazione della società;
- la responsabilità dei soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi.
È, quindi, possibile chiedere agli amministratori e ai soci di rispondere dei danni che hanno causato utilizzando lo schermo societario. Fra gli esempi di condotte che possono determinare una responsabilità diretta nei confronti dei terzi, vi sono:
- l’ordine di merce effettuato conoscendo lo stato di insolvenza della società;
- lo sfruttamento dei lavoratori;
- la mancata predisposizione di tutele in favore dei lavoratori;
- il compimento di atti finalizzati;
- i danni da inquinamento.
Recentemente lo Studio ha ottenuto un’importante pronuncia dal Tribunale di Bologna, Sezione specializzata imprese, in favore di un lavoratore oggetto di condotte di sfruttamento da parte dell’amministratore unico di una S.r.l., il quale è stato condannato al pagamento di un importo di circa € 40.000 a titolo di differenze salariali (ore di lavoro effettivo – ore di lavoro contabilizzate in busta paga), oltre interessi moratori e spese legali. Nella sentenza (la numero 1717, depositata il 5 settembre 2023), il Collegio motiva come segue:
“La domanda è fondata.
In relazione all’<<an>>, non vi è dubbio che si sia in presenza di una condotta quanto meno colposa del convenuto, quale amministratore. A tacer d’altro, il consulente ha accertato un pagamento sottodimensionato di somme, per il contratto di lavoro. Già in questo, vi è colpa dell’amministratore. Si è infatti in presenza di un contratto di lavoro; rispetto al quale l’amministratore ha doveri di tutela del lavoratore e di rispetto delle regole pubblicistiche, appunto a tutela del lavoratore. Il mancato rispetto di tali regole, siano esse normative o anche solo economiche (minimi salariali), costituisce per questo collegio negligenza dell’imprenditore, tale da integrare colpa. La consulenza ha infatti accertato che si è in presenza di stipendi (e TFR) largamente inferiori a quelli dovuti.
Si prescinde da ulteriori profili allegati ad colorandum: una condotta di utilizzo eccessivo del potere del datore di lavoro, per così dire ultra vires; orari impossibili; mancanza di consegna di buste paga; atteggiamenti inurbani del convenuto. E’ infatti sufficiente, per una qualifica in termini di condotta colposa, l’avere retribuito in termini seriamente inadeguati l’attore.
Il <<quantum>>.
La consulenza – rispetto alla quale non vi sono serie contestazioni, anche per il fondamento sostanzialmente “aritmetico” dei conteggi ivi racchiusi – ha quantificato la minor retribuzione (periodica, nonché a titolo di TFR).
Tale somma può ritenersi la giusta quantificazione del danno subito dall’odierno attore. Non è infatti contestato che l’odierno attore non abbia ricevuto tali somme da altre fonti (la società Accoglienza, a titolo contrattuale). Pertanto, tale mancato guadagno è sicuramente un lucro cessante per l’odierno attore.”